La giurisprudenza da tempo ha chiarito che la consulenza tecnica d’ufficio non è, in linea di principio e come collocazione sistematica, un mezzo di prova e, come tale, è sottratta alla disponibilità delle parti ed affidata al prudente apprezzamento del giudice di merito (Cass. civ., Sez. III, 13/03/2009, n. 6155; Cass. civ., Sez. I, 05/07/2007, n. 15219; Cass. civ., Sez. III, 02/03/2006, n. 4660) e non è soggetta al regime delle preclusioni istruttorie, potendo essere disposta in qualsiasi momento ed anche scaduti i termini di cui all’art. 183, 6° comma, c.p.c. (Cass. civ., Sez. lavoro, 21/04/2010, n. 9461).

In alcuni casi però, in concreto, la consulenza diviene vera e propria fonte di prova: ciò quando il sapere tecnico specialistico necessario ad integrare le conoscenze del giudice richieda non solo un’attività di deduzione, ma anche un’attività di percezione volta ad accertare i fatti (c.d. consulenza percipiente, costituente una vera e propria fonte oggettiva di prova, quando un fatto non è percepibile nella sua intrinseca natura se non con cognizioni o strumentazioni tecniche di cui il giudicante è privo, o, comunque, risulta di più agevole ed efficace accertamento ove l’indagine sia condotta da un ausiliario dotato di specifiche cognizioni tecnico-scientifiche).

In ogni caso la consulenza tecnica non può sopperire all’onere probatorio che incombe sulle parti, le quali non possono sottrarsi allo stesso e rimettere l’accertamento dei propri diritti all’attività del consulente, essendo necessario che quantomeno deducano i fatti e gli elementi specifici posti a fondamento di tali diritti e che il giudice ritenga che il loro accertamento richieda cognizioni tecniche che egli non possiede, o che la consulenza sia diretta a dimostrare l’accadimento o il non accadimento di un fatto la cui prova la parte non possa in altro modo fornire (divieto di c.d. consulenza esplorativa) .

La consulenza tecnica non rientra nella disponibilità delle parti, ma è rimessa al potere discrezionale del giudice, il cui esercizio è incensurabile in sede di legittimità (tra le tante Cass. civ., Sez. II, 03/01/2011, n. 72).

Peraltro, tale principio deve essere coordinato con l’obbligo per il giudice di motivare adeguatamente, sia in ordine alla ammissione della consulenza che al diniego della stessa.

In generale la motivazione può anche essere implicitamente desumibile dal complesso delle argomentazioni svolte e dalla valutazione del quadro probatorio unitariamente considerato.

Tuttavia, quando la decisione della controversia dipende unicamente dalla risoluzione di una questione tecnica, il giudice non può da un lato non disporre indagini tecniche tramite la consulenza, e dall’altro, respingere la domanda perché non risultano provati i fatti che avrebbero potuto accertarsi soltanto con l’impiego di conoscenze tecniche. In questo caso, infatti, la mancata ammissione della consulenza si traduce in un vizio di insufficienza e contraddittorietà della motivazione.

La mancata ammissione della consulenza è giustificata, infatti, esclusivamente quando il giudice disponga di elementi istruttori e di cognizioni proprie, integrati da presunzioni e da nozioni di comune esperienza, sufficienti a fondare la decisione adottata.

Se, invece, la soluzione scelta non risulta adeguatamente motivata, il mancato ricorso alla consulenza è viziato e sindacabile in sede di legittimità (Cass. civ., Sez. II, 03/01/2011, n. 72).
 

 

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